Ancora adesso utilizziamo questo termine nel dialetto lucano e probabilmente anche in altri.
Significa “Smettere di lavorare”. Mentre “A scapulatora” (me lo ripete spesso il mio amico muratore) sta a indicare che verrà a farmi visita per un sopralluogo tecnico o un piccolo intervento, non appena avrà finito di lavorare (ore 17.30-18.00).
Il termine ha radici antiche che, perse nel volgare italico che parliamo, è sopravvissuto nel dialetto (sempre prezioso). Viene da “Ex” e “Capulum” che nell’italiano ha contaminato un altro lemma “Scapolo”, ossia non sposato. Ma tra lo smettere di lavorare (in dialetto) e non avere moglie (in italiano) c’è un legame, “nu chiapp”, diremmo per coerenza. Anche “chiapp”, infatti, deriva da “capulum” e significa “cappio”, “laccio”. Da cui deriva il verbo “acchiappare” (“ad capulare”).
Il nesso tra i termini è proprio il “capulum”.
Lo scapolo è colui che è senza cappio (al contrario del coniuge che accetta invece il cappio del “giogo”, “cum iugum”, insieme sotto lo stesso giogo).
“Scapulà”, e ritorniamo al titolo della didascalia, in termini lavorativi sta a indicare chi si è liberato dal cappio del lavoro (che in altri tempi era una vera e propria schiavitù). Ma “capulus” significa anche impugnatura, per cui “scapulare” si arricchisce anche di un’altra accezione, quella di lasciare gli attrezzi da lavoro.
E adesso, visto che è orario, “scàpolo” anch’io.