La cassa

La sua adolescenza era stata una continua attesa. Pomeriggi interminabili a cavalcioni di un muretto. Gli occhi a fendere il vuoto e indagare i volti dei passanti. Suo padre era andato via. Senza clamori. Senza una ragione apparente. Una sera aveva varcato la porta di casa e non era più tornato. Alessio all’epoca aveva solo dieci anni. Tanta confusione. Un senso di smarrimento indefinito. Il volto sbiadito di sua madre, tirato come un arco che tende una freccia verso il nulla, lo piegava. Stramazzava sotto un peso più grande di lui. Avrebbe voluto dire qualcosa. Aiutarla. Ma le parole non si condensavano. Restavano eterei presagi di un discorso. Allora rimaneva lì in silenzio a guardarla.

Di suo padre restavano i vestiti nell’armadio. Pochi oggetti. Qualche fotografia. Una manciata di momenti scomposti per affinare la matita spuntata del ricordo e tentare di fissare nella memoria un’immagine traballante e instabile di quell’uomo. Nulla più.

Adesso, a ventitré anni, aveva smesso di aspettare. Sua madre non c’era più. Era andata via senza far rumore. Un aneurisma. Atropo aveva tranciato il filo e lei si era spenta. Semplice e spietato.

Alessio era stato costretto a lasciare l’università che frequentava a Napoli ed era tornato a Montemurro. Rientrare in Basilicata era stato come lacerare una membrana invisibile. Il caos della metropoli campana, che al primo impatto lo aveva stranito e poi conquistato, veniva ingoiato da un sacro senso del silenzio. Quelle case accese nel verde come tante candele di muratura lo avevano accolto con un abbraccio complice. Era come se non fosse mai andato via. Aveva pochi soldi da parte. Il paese non gli apriva alcuna possibilità lavorativa. Grazie a un vecchio amico di infanzia era riuscito a farsi assumere come cameriere in un locale di Villa d’Agri, punto nevralgico commerciale dell’intera zona. Doppi turni e mal di gambe, ma riusciva a tirare avanti. La casa dei suoi era familiare e asettica allo stesso tempo. Senza attori era diventata un palcoscenico spoglio. Una scenografia muta. Un museo in cui il dolore si stemperava in una vischiosa nostalgia. Passeggiando tra le rovine del suo passato, gli venne in mente l’ultimo incontro con sua madre. Entrambi erano seduti al tavolo della cucina. Le aveva tenuto la mano, in uno slancio di tenerezza che lo aveva sorpreso. Era gelida. Ma il contatto era stato piacevole.

La casa dei suoi genitori era a un paio di chilometri dal centro abitato. Immersa nel verde. Montemurro era lì. Poco oltre la strada alberata. Un vecchio assopito che custodiva gelosamente le sue storie segrete. Alessio non scendeva spesso in paese. Quando capitava però gli piaceva indugiare nei i vicoli. L’inverno era la sua stagione preferita. Respirare il profumo di legna arsa lo inebriava. Quando il freddo tagliente arava le strade deserte, lui lasciava che i pensieri, sottovoce, accompagnassero le sue camminate, ripercorrendo i luoghi della sua infanzia. L’Orto di Merola era una delle destinazioni preferite. Si ricordava le corse a perdifiato fino al lavatoio. Il pallone sotto il braccio. I capelli arruffati. Le ginocchia sbucciate.

Pensava a questo mentre sollevava a fatica un masso e lo caricava su una carriola sgangherata. Dopo aver sradicato le erbacce che infestavano il terreno dietro casa, si stava dedicando alla rimozione dei numerosi sassi piantati nel terreno. Aveva sempre desiderato allestire un piccolo orto in quel posto. Sua madre non aveva mai voluto. Si era sempre limitata a tagliare l’erba quando diventava troppo alta. Temeva che in quel groviglio selvaggio si annidassero dei serpenti. Per il resto tutto restava in uno stato di semiabbandono.

Con la pala stava scavando intorno ad un masso e facendo leva era riuscito a farlo rotolare via. Si asciugò il sudore sulla fronte con il dorso della mano. Notò qualcosa. Una superficie liscia. Si sporse per osservare meglio. Scostò un po’ di terriccio. Sembrava legno.

Riprese a scavare. Procedeva con attenzione. Qualunque cosa fosse, non voleva rischiare di danneggiarla. Gli ci volle un bel po’ di tempo, ma alla fine tirò fuori una cassa. Non era molto pesante.  Aveva una forma rettangolare. Il legno era marcito in alcuni punti. Tutta la superficie era ricoperta da una ragnatela di indecifrabili caratteri intrecciati. Una catena, fissata da un lucchetto, la avvolgeva in una stretta salda. Con un colpo di pala lo fece saltare via. La catena sferragliò e si sciolse.

Aprì la cassa. Un olezzo pungente si sparse nell’aria. Dentro c’era un cranio oblungo. Di colore nero. Sembrava quello di un animale. Era provvisto di zanne lunghe e contorte. Oltre a questo, all’interno, c’era anche un orologio con il cinturino di pelle e un portasigarette di metallo, con sopra inciso un sole e una luna. Un ricordo fece capolino nella sua mente. Suo padre che estraeva il portasigarette dal taschino. Ne estraeva una sigaretta. La infilava, disinvolto, tra le labbra con aria compiaciuta. E tirava una boccata con aria assente.

I ricordi tracimarono. Putrescenti. Indesiderati. La sua infanzia. I segni sul viso di sua madre. Le ferite. I lividi. Le lunghe notti in cui suo padre spariva. La veglia di sua madre in cucina, affacciata alla finestra. Quell’espressione preoccupata. Temeva che il marito non tornasse più o era proprio l’idea del suo ritorno a spaventarla? All’epoca sembrava tutto così chiaro. Perché adesso il dubbio si intrufolava come un ladro, mettendo tutto a soqquadro?

Prese tra le mani il teschio. Sembrava quello di un cane. Ma era anche troppo grande per esserlo. Non ne avevano mai avuto uno. Suo padre non li sopportava. Sentimento pienamente ricambiato da quei quadrupedi. Ogni volta gli abbaiavano e ringhiavano contro. Sentì un caldo pulsare tra le sue mani.

Un rumore dal vecchio pozzo. Un raspare frenetico. Lo scricchiolare delle tavole di legno che lo chiudevano. Poi uno schianto. Un corpo macilento, senza testa, era ruzzolato fuori. Una massa contorta. Si stava drizzando in piedi. Poco più di uno scheletro dinoccolato. Nero. Coperto di muffa.  Un fermento di fibre muscolari e tessuti si ricomponevano su quella struttura grottesca.

Il cranio era diventato incandescente. Lo lasciò cadere. Due bulbi oculari erano comparsi in quelle orbite vuote e lo fissavano. Svenne.

Quando riprese conoscenza, le sue narici furono invase da un odore aspro e intenso. Una creatura deforme era accovacciata accanto a lui. Era coperta da un folto pelo scuro. Una testa da lupo su un corpo scarno da uomo. Un ringhio esponeva una tagliola di denti. Una lingua nera penzolava fuori da quelle fauci. Due occhi gialli e acquosi erano piantati nei suoi. Una voce sgraziata uscì da quella maschera terrificante da fiera:

<<Figliolo, che bello rivederti dopo tutto questo tempo.>>

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