Capita spesso in classe che si discuta con gli studenti. I due anni appena trascorsi, almeno fino a giugno scorso, li hanno di certo segnati, lasciandoli più soli, più esposti e più fragili rispetto al marasma della rete. Avendo letto l’allarme (2020) del presidente dell’Unicef Italia, Francesco Samengo, sull’aumento della loro permanenza sulle piattaforme digitali, e, conseguentemente, sull’impennata dei reati connessi all’adescamento online da parte dei predatori del web, oltre a tutta una serie di comportamenti incontrollati e a rischio, ho proposto ai miei studenti di scuola superiore, una terza, un piccolo esperimento sul campo.
Realizzare una tabella con il tempo medio trascorso sugli smartphone, nel giorno medio (su base settimanale). Premetto che nessuno di loro avesse un’idea ben chiara di quanta parte della giornata dedicassero al rapporto con propri cellulari. Chi diceva due ore, chi tre. Con una logica chiaramente spannometrica.
Aperti i cellulari li ho invitati ad aprire le impostazioni, ad entrare nella sezione “Benessere digitale e controllo genitori”, dove per ogni applicazione sono forniti i dati relativi all’uso dei social, in particolare, e delle diverse app di comunicazione, come Wattsapp, Telegram, Signal ecc., di intrattenimento (videogiochi), musicali (Spotify) o servizio streaming (Netflix e Youtube).
I primi a stupirsi dei dati sono stati proprio loro, quando snocciolando i tempi parziali e totali, si sono resi conto che il tempo dedicato alla solitudine e al virtuale andava oltre la loro percezione.
La media giornaliera oscillava, per tutti, tra le 6 e le 8 ore. Un tempo enorme. Quasi un terzo/quarto di una giornata, spalmato in modo particolare, per quanto riguarda i social, su Instagram e Tik Tok (assente completamente Facebook), su Wattsapp (nel labirinto dei mille gruppi di cui fanno parte), sui videogiochi (wargame e Fantacalcio), su Spotify e su Netflix. Su quest’ultimo la possibilità di seguire in autonomia le serie, infilando una puntata dopo l’altra (il sistema le propone in automatico, non devi neanche schiacciare un tasto), una stagione dopo l’altra, li costringe a estenuanti maratone, a volte anche notturne, i cui effetti sono ben evidenti la mattina dall’alto numero degli sbadigli, di cui ovviamente fai finta di meravigliarti.
Nessuno di loro guarda la tv, né programmi di approfondimento, né telegiornali, né talkshow.
Quel poco che sanno del mondo esterno arriva sotto forma di slogan dai social (Instagram perlopiù), che basano la loro comunicazione sul commento basico di un’immagine. E se li inviti ad utilizzare il potente strumento, che utilizzano per tanto tempo in una giornata, per fare una ricerca, per approfondire un tema, per guardare un grafico, per comprendere posizioni e argomentazioni, magari sulla pandemia che hanno vissuto sulla propria pelle, e che dovrebbe incuriosirli, la risposta è “Professò non ci capisco niente!”.
E non hanno tutti i torti. L’infodemia è la morte della comunicazione. Persino gli adulti, in teoria più scaltri, hanno difficoltà a districarsi nel ginepraio di una informazione esasperata e urlata, scaraventata dal basso e dall’alto, da destra e da sinistra, ossessiva e confusa.
La contraddizione è stridente. I nostri studenti (ma anche noi adulti) hanno un potentissimo mezzo di ricerca e di approfondimento, altro che Encyclopedie di Diderot e D’Alambert, che consente loro, senza muoversi fisicamente, di connettersi con il mondo e attingere ad una quantità immensa di informazioni, ma il sistema, con la sua infinita scaffalatura di proposte e di dati, è refrattario, per la sua natura entropica, alla conoscenza, al sapere. L’infodemia è un muro di gomma su cui si rimbalza. Sappiamo che esistono gli aghi, ma il pagliaio è immenso.
E di fronte a una esclamazione, “Professò non ci capisco niente!”, che urla frustrazione e aiuto, ho pensato di fornire loro una specie di dodecalogo che possa valere sia per le informazioni sulla pandemia che sulla comunicazione in generale. Se non altro per far capire quanto sia faticoso il metodo e complesso il lavoro di ricerca, se vogliamo ridurre la possibilità di essere gabbati. A maggior ragione se si parla di argomenti scientifici, sui quali la spada di Damocle dell’arbitrarietà dovrebbe oscillare molto meno.
Quanto sta accadendo può diventare un’occasione di maturazione, di affinamento della ferramenta, indispensabile per orientarsi nella giungla delle informazioni, e diventare cittadini consapevoli delle opportunità e dei rischi della grande ragnatela in cui siamo letteralmente e inevitabilmente invischiati. Ma non è facile, né scontato. E affidarsi all’istinto è disutile.
Dodecalogo per districarsi
dalle maglie dell’infodemia sul Covid-19 (e non solo)
1) Evitate le informazioni non argomentate e semplificate su Instagram, Twitter, Tik Tok (su Fb ci sono poche buone eccezioni). Evitate i talk show. E dovunque si urli.
2) Verificate se il sito di informazione è una vera testata giornalistica con un direttore responsabile e se l’articolo è firmato con tanto di nome e cognome.
3) Non prendete in considerazione le affermazioni o le dichiarazioni dei politici di professione, spesso slogan.
4) Controllate sempre la fonte (meglio se scientifica) e la data di pubblicazione.
5) Ricordate che se la situazione è complessa, complessa è l’analisi, complessa è l’argomentazione, complessa è la soluzione (se c’è).
6) Ricordate che avere un camice bianco non garantisce la scientificità delle asserzioni. Verificate in rete il curriculum e l’attività professionale del soggetto. Se hai problemi di udito, non vai dal ginecologo. “A ciascuno il suo”, direbbe Leonardo Sciascia.
7) Tenete a mente che gli scienziati-vip sono frastornati dall’eccesso di sovraesposizione mediatica a cui non sono abituati e di cui non conoscono gli ingranaggi. La loro strumentalizzazione è evidente, ma sui concetti-cardine, la distanza delle loro posizioni è impercettibile.
8) Diffidate dall’estrapolazione di frasi a effetto, ritagliate da interviste ampie, sparate con titoloni asfaltanti. Cercate sempre la versione originale. Internet e l’informazione sui social tendono a triturare tutto e a ideologizzare per convenienza politica.
9) Diffidate sempre di chiunque parli, senza portare numeri e dati, senza aver dimostrato con una ricerca o con pubblicazioni scientifiche le proprie ipotesi interpretative.
10) Abbiate la pazienza di soffermarvi su tabelle e grafici (da fonti ufficiali), soprattutto se comparativi nello spazio (tra realtà geografiche diverse) e nel tempo (utili sono i confronti con gli stessi dati dello scorso anno).
11) Guardate Tg3 Leonardo alle 14.50. Seria trasmissione di divulgazione scientifica. O se potete seguite su Skytg24 I numeri della pandemia alle 18.00 di ogni giorno con il vicedirettore Alessandro Marenzi (è un matematico). Su internet per i dati affidatevi al sito del Ministero della Salute o della Protezione civile. In alternativa per le situazioni di confronto regionale è utile su Fb la serie di infografiche di «Pillole di Ottimismo» di Paolo Spada e Guido Silvestri. Per le analisi predittive seguite l’esperto di Big data Davide Tosi, con «Predire è meglio che curare».
12) Scegliete sempre la posizione più argomentata e, nel dubbio, quella che si ispira al principio di prudenza.