L’inquinamento è una rogna

L’inquinamento è una rogna per i poveri. Come se non avessero già cose a cui pensare e di cui preoccuparsi. E questo a dispetto del fatto che i poveri contribuiscono meno dei ricchi alla produzione dei fattori inquinanti e climalteranti. Questo squilibrio è evidente a scala elevata: un Italiano in media inquina più di un Colombiano che a sua volta inquina più di un Mozambicano. Ma è anche confermato a scala microeconomica: un italiano ricco consuma più di un connazionale povero e quindi produce maggiore inquinamento a titolo personale. La rogna per il povero sta negli effetti di questo disequilibrio di consumi inquinanti, che non si ripercuotono proporzionalmente, ma anzi in maniera inversamente proporzionale.

Infatti gli impianti produttivi saranno probabilmente più prossimi alle abitazioni dei poveri rispetto ai quartieri residenziali dei più ricchi, i quali saranno evidentemente meno esposti ai rischi delle emissioni. Andate a vedere quanti medici o notai abitano nel quartiere Tamburi a Taranto, a ridosso dell’ex Ilva. Ma anche se l’esposizione fosse equanime gli effetti sulla salute dei cittadini probabilmente colpirebbero maggiormente i meno abbienti costretti a rivolgersi alla sanità pubblica, laddove presente, e nel caso di sua inefficienza impossibilitati a trovare soluzioni di cura private e alternative. Anche gli effetti sul clima, capaci di aumentare le possibilità di eventi estremi, espongono maggiormente i più poveri al rischio per la incolumità fisica propria e per l’unica abitazione in cui vivono.

Dunque i pallidi avanzamenti della recente Cop26  non costituiscono una preoccupazione di pari portata per tutti gli abitanti della terra, sono un fregatura soprattutto per i meno fortunati del pianeta e in generale per quelli che hanno meno fieno in cascina o che comunque percepiscono un reddito maggiormente esposto alle fluttuazioni di una economia sempre  più influenzata dagli shock da crisi energetiche e climatiche.

In questo contesto così articolato e complesso è saltata anche l’egoistica rassicurante sensazione di non essere noi gli ultimi della fila. Un tempo la fortuita appartenenza ad un paese ricco come il nostro metteva al riparo dalle tribolazioni che potevano colpire il lato meno sviluppato del pianeta. Adesso invece le crisi dovute alle alterazioni ambientali funzionano a macchia di leopardo: possono colpire, con sconvolgimenti climatici o effetti secondari sull’economia locale, ogni punto della Terra. In Italia come nelle Filippine o in Cile.

Ma nonostante questo ci comportiamo per lo più come se il contenuto delle scelte assunte in contesti come la Cop26 fossero beghe tra rappresentanti bizzosi, incapaci di trovare un accordo. Questo rinvio di decisioni stringenti sulla riduzione delle emissioni climalteranti finisce con il determinare travisamenti nell’opinione pubblica. Loro sono stati incapaci di decidere. Loro non si assumono responsabilità. Come se esistesse una separazione tra i governi rappresentati ai negoziati ed i cittadini. Come se le scelte dei governi non fossero connesse alle ragioni della produzione industriale che a loro volta non fosse collegata ai nostri consumi. Come se non fossimo noi a guidare le auto a combustibile fossile o a ordinare le merci che viaggiano in milioni di container in giro per il mondo in questo momento.

Certo vi sono responsabilità diverse. Tuttavia abbiamo smarrito il nesso di causalità tra i nostri comportamenti e gli effetti delle nostre scelte sui livelli di inquinamento e sulle modificazioni del clima. Certamente non salveremo individualmente il mondo spegnendo una luce inutilmente accesa o scegliendo di non usare l’automobile quando non è necessario, preferendo in sua vece magari una salutare passeggiata. Ma è anche vero che nessun gesto è neutro e che, come diceva Totò, alla fine è la somma che fa il totale.

La siccità di questa estate, gli eventi calamitosi dell’autunno del nostro paese o semplicemente il verificare che nel mese di novembre nel nostro giardino fioriscano le rose qualche pensiero dovrebbe darcelo.

Dunque non è vero che tutti i comportamenti sono uguali e che è da fighi comprarsi un’automobile che costa quanto il redito decennale di un impiegato o uno yacht che vale quanto un decimo del PIL di un paese subsahariano. Non è invidia sociale spacciata per rigurgito di conflitto di classe. E’ coscienza che forse non basta la legittima capacità di acquisto e di consumo se poi le conseguenze, nel caso specifico le emissioni di quei potenti motori, le scontiamo tutti, anche quelli che l’auto e la barca nemmeno ce le hanno. Se poi uno guadagna bene perché se l‘è meritato e decide gratificarsi badando a contenere la propria impronta ecologica e comprando una barca a vela o una supercar elettrica alimentata con energia da rinnovabili, bè allora quello sì che può essere comportamento da strafighi. 

La strada per contenere il degrado ambientale e il contenimento dell’innalzamento della temperatura media della Terra a causa delle emissioni climalteranti si fa sempre più in salita. Possiamo provare ad alleggerirla, ognuno per quello che può, comportandoci da cittadini informati e consapevoli, agendo in maniera coerente nella nostra quotidianità e invitando gli altri a fare altrettanto, perché forse oggi, più che in passato, per innescare cambiamenti  sono le nostre scelte di consumo che potrebbero contare più delle nostre preferenze di voto alle elezioni.

Condividi