Riflessioni di fine anno

Al seminario sui malesseri legati alla professione del docente, a Istanbul, il medico parlò di corde vocali affaticate e gambe gonfie, poi chiese se ci veniva in mente altro. Dal fondo dell’aula un collega coraggioso aggiunse: la schizofrenia. Era il 2019. Adesso con la Pandemia la lista si è allungata ma teniamo ancora botta.

Tempo di esami per i ragazzi e di scartoffie per gli insegnanti: anche qui, a maggio, i registri viaggiano da una classe all’altra. Da compilare c’è anche il quaderno dei nöbet cioè della vigilanza. Durante le ricreazioni ad ogni insegnante viene assegnato un ambiente da supervisionare: corridoi, mensa, palestra, giardino. La culpa in vigilando è una cosa che viene presa molto molto sul serio. Vorrei che fossero presi sul serio anche i libri di testo che invece, almeno fino a due anni fa, a giugno venivano ammucchiati in un angolo della classe (scuole elementari e medie) e poi raccolti in grandi bustoni neri e gettati via.

«Ma ragazzi, no! Non si gettano i libri!»

«Hocam, okul bitti ya!» (Prof, ma tanto la scuola è finita!)

«Ho capito ma potete rivederli oppure regalarli», ma loro stavano già correndo come pazzi verso la libertà.

Quindi ne salvai alcuni e me li portai a casa. Nelle prime pagine di tutti i libri c’era il ritratto di Atatürk e la storia della Repubblica Turca. Sfogliandoli notai, tra le altre cose, che c’erano accenni alla filosofia, anche se l’approccio alla disciplina era (ed è) più mnemonico che ragionato ma questo dipende in larga parte da come l’insegnante affronta l’argomento e il suo ruolo all’interno della società. In questa cultura però, il maestro può soltanto di rado mostrare apertamente una perplessità senza per questo sentirsi sminuito dalla sua platea di discenti: infatti, il docente che rimanda una discussione o la risposta alla domanda di uno studente per potersi documentare al meglio e magari recare con sé il testo giusto o il materiale appropriato, è valutato alla stregua di un cialtrone. Tutto ciò si traduce nella spiacevole abitudine di rispondere qualcosa anche quando non si è certi di ciò che si sta dicendo, anzi anche quando non si ha la minima idea sull’argomento. L’importante è esprimersi mostrandosi sicuri. Che sia un modo per prendere tempo senza che nessuno se ne accorga per poi documentarsi e ritornare con disinvoltura sull’argomento è una valida ipotesi all’interno del contesto scuola ma quale è l’impalcatura di pensiero sulla quale si regge questo espediente?

Perché, vedete, questo comportamento caratterizza la società a tutti i livelli. Anche se il giornalaio è l’onnisciente per antonomasia e andrebbe retribuito dallo Stato per il suo servizio pubblico, in strada capita che non ce ne siano nei paraggi per cui ci si risolve a chiedere un’indicazione al passante di turno, il quale, piuttosto che un “guardi, non lo so” ti manda volentieri in Bulgaria (anche se a occhio e croce l’idea era quella di rimanere nel Paese). Idem al ristorante, dove anziché un “caro cliente, viste le sue allergie mi accerto in cucina degli ingredienti di codesta pietanza”, ti dicono “no,no” e “sì,sì” con una tale concretezza che tu, che pure di secondo nome fai Sospetto non solo gli credi ma metti a repentaglio la tua stessa vita. Lo schema è questo: prima ti accoppano e poi ti dicono “ozur dilerim efendim, geçmis olsun” (sono desolato signore, le auguro di riprendersi presto) e il fatto curioso è che è vero, sono sinceramente desolati. Ecco, ciò a mio avviso dipende in larga parte dall’idea che in questo sistema culturale non ci sia posto per il dubbio. Non c’è onore nel dubbio. Se da noi in Italia la letteratura e la filosofia non ruotano che intorno a questa ricerca, questa necessità di acclarare, di verificare e confutare, dove il dubbio, appunto, è un imprescindibile ingranaggio in un meccanismo di crescita, qui il sapere deve essere chiaro, inquadrato, maneggiabile. L’assertività del parlante è quindi un tranello non da poco, mi fa sentire al sicuro che l’altro si senta sicuro e precipitiamo insieme nell’errore per un difetto di fiducia.

È difficile da spiegare a un italiano che non è immerso in questa cultura, ma c’è un senso di inevitabilitá in questo schema, cose che causano cose e che poi come vuole Dio e dove uno si aspetta reazioni di furore invece fa capolino una tacita accettazione perché fa tutto parte di uno sguardo sulla vita che non si cambia con uno schiocco di dita perché “comportarsi altrimenti sarebbe più logico” (certo, vai a dirlo a chi voleva andare a Kadıköy ma gli hanno indicato la via per Edirne) tuttavia ad un certo punto anche lo yabanci (lo straniero, che a proposito l’etimo è lo stesso di yaban che significa selvatico), dicevo, ad un certo punto anche lo straniero che vive qui smette di prendersela e si fa una risata.

Allora è proprio a scuola e nelle università che l’incontro tra gli studenti turchi e il docente straniero diventa un’occasione per entrambe le parti di misurare l’elasticità culturale in un lavoro di continui accertamenti dove si impara a decifrare i codici sociali e a smontarli e rimontarli in svariate forme, tutte diverse e funzionanti anche se non tutte condivisibili.

Uno studente tornò indietro quella volta.

«Prof, ma veramente non gettate i libri usati?»

«Certo che non li gettiamo, che significa gettare i libri?»

«E davvero ve li fate pagare? La gente non si offende?»

«Proprio per questo glieli facciamo pagare, così non si offendono», ma lui la trovò una scelta scandalosa, senza onore.

Tuttavia questa è la storia di un’altra cultura, di cui i lettori già conoscono tanto. 😉

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