Quale “globalizzazione”?

Sostengo da tempo che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia rappresenti la fine della “globalizzazione”, ma sono necessarie alcune precisazioni (me ne dà l’occasione un recente articolo di Giulio Tremonti) altrimenti si rischia di incorrere in equivoci fuorvianti. Non esiste tra i due fenomeni, guerra /globalizzazione,  un rapporto di causa effetto “meccanico”, o meglio la guerra è il prodotto della fine della “globalizzazione” e non viceversa. Cosa significa e quali scenari implica?

La globalizzazione dei mercati è stata la rappresentazione più evidente della vittoria del “neoliberismo”, ha sancito il primato della finanza e la centralità del profitto, è alla base del governo mondiale dei processi dove la politica svolge un ruolo “ancellare” e gli “stati nazionali” una funzione completamente subalterna, alla finanza e all’economia. “I numeri attuali sono terrificanti. La finanza sta alla realtà in rapporto di tre a uno, come mai nella Storia. Su questa curva della Storia è arrivata la guerra in Ucraina. Già la pandemia aveva hackerato il software della globalizzazione, poi è venuta la guerra. Non sarà la fine ma temo il principio del disordine portato dall’inflazione. Che è la tassa sui poveri”, questa la riflessione dell’ex ministro della “finanza creativa”.  

La spinta alla globalizzazione parte dagli anni settanta, dalle crisi economiche di quel periodo, storicamente agisce, per dirla con la scuola degli Annales, come una struttura di “Longue durée”, si presenta come una naturale e inevitabile evoluzione del capitalismo nella sua fase di massimo sviluppo, una “tensione” oltre che un modello che deve ottimizzare la produzione e la circolazione delle merci. E’ paradossale che una delle novità di quelle crisi fu l’apparire nei processi economici contemporaneamente di  stagnazione e inflazione (fu creato allora il termine “stagflazione”), un termine che viene di nuovo , dopo decenni, evocato per parlare della crisi economica che si prospetta come conseguenza immediata della pandemia prima e ora della guerra.

Ma proprio nella fase del suo massimo sviluppo sono emerse le contraddizioni più forti: un aumento delle diseguaglianze sociali, lo smantellamento dei welfare nazionali, l’abbandono delle zone più povere del mondo al loro destino e nel contempo, intrecciate con culture di vecchia sedimentazioni, le pulsioni nazionalistiche e sovraniste, ora antiglobalizzazione, che ignorate dalla sinistra e dalle socialdemocrazie hanno portato all’avanzata politica della destra in tutta Europa. La crisi di “questo modello di globalizzazione” è il prodotto di meccanismi interni al capitalismo, la cui molla principale, rimane la concorrenza esasperata, finalizzata all’accumulazione senza freni concentrata in poche “mani”, il cui equilibrio si è, però, incrinato dall’irrompere sulla scena mondiale di nuovi soggetti come la Cina, l’India ( ma non sottovaluterei neanche la Turchia che non a caso si pone oggi come un mediatore più credibile della “sciagurata” Europa), dove paradossalmente il primato della economia è controbilanciato da un modello politico autoritario e perciò “forte”.

I mercati mondiali rimangono mondiali e quindi “globali” ma si vanno riassestando, per farlo devono rispolverare il valore della “guerra”, la guerra a sua volta mette in crisi proprio la “globalizzazione” che esige un ordine mondiale ben assestato, una contraddizione evidente da cui non si sfugge e dentro cui vanno collocati i tragici avvenimenti di questi giorni.  Ma lo sappiamo il capitalismo si nutre e si alimenta delle proprie contraddizioni perciò ogni previsione di “fine della storia” è destinata a non avverarsi.

Ci troviamo in una fase pericolosissima, nella quale si innescano processi che producono effetti non governabili e non prevedibili. Quando parlo di fine della “globalizzazione” parlo di questo a cui aggiungerei anche la drammatica crisi “ambientale” che impone un cambio di rotta a prescindere dalla risoluzione dei conflitti in corso.

Il problema era ben chiaro da decenni a molti studiosi ed economisti, prima che fosse coniata la stessa parola “globalizzazione”, a partire dalle ricerche di Michel Foucault. Il nuovo liberalismo politico-giuridico chiamato “neoliberalismo”, che è la base culturale dell’attuale modello, è composto da economisti tra loro abbastanza differenti: una «scuola» tedesca, una scuola «austriaca», quella di Chicago. La scuola tedesca di Friburgo,  composta da filosofi ed economisti che avevano vissuto il dramma della seconda guerra mondiale e la sconfitta della Germania,  avevano intuito la pericolosità del clima post bellico e i limiti del modello che si andava prospettando,  introducendo il concetto  di «ordoliberismo» tentando di coniugare i diritti umani con quelli dell’impresa a livello sovranazionale.

Come ha osservato Michel Foucault, tutti loro, specialmente i “francofortesi” prendono le mosse dalla constatazione di quella che Max Weber aveva definito l’irrazionale razionalità mostrata dal capitalismo. I primi, attraverso la faticosa e travagliata elaborazione di una teoria critica, hanno cercato di pensare una nuova forma di razionalità sociale capace di eliminare i risultati e gli effetti irrazionali propri della razionalità economica. I membri della Scuola di Friburgo, in particolare, si sono posti il problema della possibilità di una razionalità economica capace di annullare, o quanto meno di neutralizzare, l’irrazionalità del capitalismo.

Nell’ordoliberalismo tedesco  si tenta  una conciliazione tra una politica del diritto e della concorrenza (Walter Eucken) e un’economia sociale del mercato (Alfred Müller-Armack) finalizzato ad una politica economica che, senza negare i principi del “neoliberismo”, lo collochi nello spazio complessivo della vita sociale e dello Stato-nazione per prevedere le possibili distorsioni. Evidentemente, ancora una volta,  l’autonomia del mercato e le sue leggi non riconoscono altre verità, come già era avvenuto con le teorie  “keynesiane”  subito dopo il superamento della crisi del 1929 , se non quella della espansione senza fine dei mercati sottratta ad ogni altro tipo di logica. E infatti ritorniamo all’utilizzo della guerra come strumento di risoluzione dei problemi.

La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, diceva qualcuno già nell’ottocento, non potendo prevedere che i “mezzi” di cui si può servire la guerra oggi sono talmente potenti da poter sfuggire di mano in qualsiasi momento. Questo lo sfondo, e questo intendo per fine della “globalizzazione”. Una sospensione momentanea? Non lo so, dipende da cosa succederà e da quanto durerà l’aggressione all’Ucraina. Un conflitto diverso,  che va analizzato al di là dell’onda emotiva, delle “torsioni” propagandistiche delle due parti, delle notizie mai così manipolate, che si svolge nel cuore dell’Europa in cui si intrecciano molti meccanismi,  alcuni arcaici come l’ideologia dell’ “unità dei popoli euroasiatici” ( che in Russia ha precisi riferimenti culturali ed ideologici) e lo zarismo di Putin, ed altri modernissimi che attengono ad un nuovo ordine mondiale, una miscela esplosiva che solo un ritorno al primato della politica può disinnescare.

Nel frattempo, per chi non se ne fosse accorto, si consuma il massacro di un popolo e di uno stato sovrano, come del resto avviene, e da molto, anche in Palestina, nello Yemen, in Birmania (giardino di casa della Cina), in Corea, in Afganistan, nel Magreb dove c’è una bomba innescata che può riattivarsi da un momento all’altro. Proprio in questi giorni riparte “silente” lo scontro in Nagorno Karabakh e nei Balcani si ricominciano ad attivare tensioni, mai sopite, a partire dal Kossovo. Fermare subito la guerra in Ucraina è sicuramente la priorità “Etica” ma è necessario frenare questo gioco del “domino” prima che sia troppo tardi.                                   Agire subito, un imperativo etico prima ancora che politico, ma nel contempo riflettere in maniera organica sugli avvenimenti di questi giorni per impedire che passata l’ondata emotiva ci si dimentichi del resto, salvo poi ricordarsene alla prossima crisi.

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